Legge 104/92: i permessi anche ai conviventi

In vista del prossimo incontro di Parliamone Insieme è opportuno approfondire le recenti novità che la sentenza 213/2016 della Corte Costituzionale ha introdotto riguardo ai permessi previsti dalla Legge 104/92 che ora spettano anche ai conviventi.

Secondo questa recente sentenza della Corte Costituzionale, emanata lo scorso 23 settembre, i permessi retribuiti previsti dal c. 3 dell’art. 33 della Legge 104/92 non spettano più soltanto ai genitori, ai parenti e agli affini e al coniuge di una persona con una riconosciuta disabilità grave ma anche al convivente more uxorio.

Permessi della Legge 104/92: a chi spetta(va)no?

Secondo il comma 3, ormai abrogato, dell’art. 33 della Legge 104/92 i tre giorni di permesso mensili, retribuiti, previsti per i lavoratori, dipendenti pubblici o privati, che assistono una persona con handicap grave, spettavano a:

  • al coniuge della persona portatrice di handicap grave;
  • al parente ed affine del disabile, entro il secondo grado, compresi i genitori della persona portatrice di handicap grave;
  • al parente ed affine di terzo grado, nel solo caso in cui i genitori o il coniuge della persona portatrice di handicap grave fossero deceduti, mancanti, affetti da patologie invalidanti o avessero compiuto i 65 anni;

La sentenza 213/2016 della Corte Costituzionale

La sentenza che ha rettificato la Legge 104/92, ridefinendo la platea dei beneficiari dei permessi, ha la sua origine in una controversia giudiziaria sollevata da un dipendente della ASL di Livorno contro la stessa azienda, per ottenere, appunto, i permessi di assistenza previsti dal c. 3 dell’art. 33 della legge 104/92, a favore del proprio compagno, con il quale conviveva more uxorio e che era affetto da morbo di Parkinson (disabilità grave e irreversibile). La dipende della ASL richiedeva contestualmente anche il recupero – in termini di ore di permesso e di denaro – delle ore di permesso da lei utilizzate per garantire l’assistenza (già prestata) al proprio convivente in un periodo pregresso di circa 7 anni, quando la possibilità di usufruire dei tre giorni retribuiti di permesso, previsti dalla Legge 104/92, le era stata revocata dalla stessa azienda datrice di lavoro (ASL) che prima li aveva concessi, proprio in base alla mancanza di legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito.
Il giudice del lavoro presso il Tribunale di Livorno ha sollevato, in via incidentale, la questione di legittimità costituzionale del c. 3 dell’art. 33 della legge 104/92

“nella parte in cui non includeva il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità”

per la violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.
La Corte Costituzionale dopo aver ravvisato la pacifica rilevanza della questione di costituzionalità sollevata, ne ha dichiarato anche la fondatezza nel merito, ritenendo che

“non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, violava i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione”.

A ciò occorre aggiungere che la dichiarazione di incostituzionalità emanata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 213/2016 colpisce il solo c. 3 dell’art. 33 della l. 104/92, lasciando sopravvivere il resto della norma. Inoltre, non rientra nei compiti della Corte Costituzionale né legiferare, né stabilire principi “estensibili” poiché la funzione della Corte è stabilire se la norma rimessale, in questo caso dal giudice del lavoro, sia in tutto o in parte, in conflitto con una o più norme costituzionali.
Ciò implica che la Corte, pur non volendo equiparare tutti i diritti e gli obblighi previsti per i coniugi, con quelli previsti con i conviventi more uxorio, in questo specifico caso ha voluto tutelare la salute del soggetto affetto da disabilità assicurandogli la vicinanza della persona con cui ha una “relazione affettiva”. Se il principio tenuto presente è, dunque, la “relazione affettiva”, l’interesse primario da tutelare è il diritto all’assistenza del disabile, in particolare, e quello della salute, in generale. Per questo, la relazione affettiva non può essere circoscritta al solo rapporto di parentela e di coniugio ma può manifestarsi anche nella famiglia di fatto che viene qui intesa come “comunità di vita”.

In definitiva, quindi, la sentenza equipara al coniuge il solo convivente more uxorio della persona disabile. In tale definizione, alla luce delle recente legge sulle Unioni Civili, dovrebbero di diritto rientrare anche i partner del disabile all’interno delle coppie omosessuali, mentre non possono considerarsi interessati dalla sentenza i conviventi more uxorio che assistano una persona disabile figlia del proprio partner.

Conviventi more uxorio: chi sono?

In gergo tecnico, avvocati e giudici intendono come conviventi “more uxorio” non coloro che si limitano a vivere nella stessa abitazione e a dividere le relative spese, quanto piuttosto quelle coppie ormai stabili che, pur non essendo legate da regolari nozze, hanno iniziato un rapporto di convivenza duraturo, con il compagno o la compagna, basato sugli stessi principi del matrimonio (obbligo di fedeltà, di reciproca contribuzione economica, materiale e morale, ecc.). Si tratta, insomma, non di coppie che condividono il solo letto ma che, alla pari di una famiglia propriamente detta, si considerano tali pur non avendo mai celebrato il matrimonio.
La giurisprudenza ha, infatti, chiarito in altre, molteplici, occasioni che le coppie di fatto, come vengono definite comunemente, hanno gli stessi diritti e doveri delle coppie comunemente sposate.
Da un lato, quindi, la sentenza della Corte Costituzionale colma un vuoto normativo, estendendo ai conviventi more uxorio un’importante norma pubblicistica riconosciuta ai cittadini sposati. D’altro canto, però, la Corte non si è preoccupata solo di riconoscere alle coppie di fatto gli stessi diritti delle coppie sposate ma ha considerato anche la tutela del diritto alla salute (art. 3 Cost.) che rientra a sua volta tra i diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.).
Escludere i conviventi more uxorio dai permessi previsti dalla L. 104/92 avrebbe, quindi, comportato anche una limitazione incomprensibile del diritto del disabile a ricevere assistenza.